Sismologia e prevenzione
Il terremoto friulano del 1976 può
essere considerato il primo, forte terremoto italiano studiato sulla base di un
numero cospicuo di dati scientifici e di robuste analisi. Ha dato inizio ad una
ricerca coordinata a livello nazionale, con la nascita del Progetto finalizzato
geodinamica a cui hanno partecipato geologi, sismologi ed ingegneri, mettendo
in luce la necessità di un sistema nazionale di protezione civile, che sarebbe
stato istituzionalizzato nel 1982. Per più di un verso è stato il punto di
partenza della moderna indagine sismologica in Italia, da cui sono scaturiti
nuovi strumenti di monitoraggio, classificazione del territorio e di
prevenzione, che consentono di conoscere meglio il comportamento del suolo e di
ridurre gli effetti dei futuri terremoti.
Agli inizi del 1976 le organizzazioni
scientifiche del Friuli Venezia Giulia dimostravano scarso interesse alla
sismicità locale: anche per questo le scosse colsero la popolazione e gli
amministratori impreparati ad un evento della portata di quello che si
materializzò il 6 maggio. All’epoca soltanto 33 stazioni sismometriche erano
operative in Italia, nelle università o in istituzioni geofisiche. Nell’Italia
nord-orientale a Trieste, Udine, Padova, Salò e Bolzano, vicino al Friuli, nel
raggio di 250 km, c’erano stazioni operative in Slovenia, a Lubiana, Cerknica,
Labin e Puntijarka, in Croazia, a Zagabria, in Austria, a Kremsmunster,
Mariazell, Molln e Innsbruck, in Germania, a Bad Reichenhall, Fürstenfeldbruck
e Garmisch. Nel giugno del 1976, l’università di Vienna installò nuove stazioni
a Klagenfurt e Bad Blaiberg in Carinzia.
Il monitoraggio della sismicità
italiana era affidato all’Istituto nazionale di geofisica (ora Istituto
nazionale di geofisica e vulcanologia, INGV) di Roma che all’epoca pubblicava
due bollettini. Dal 1906 esisteva a Trieste una stazione sismografica, ubicata
presso l’Osservatorio marittimo, che ha garantito la raccolta di dati
sismologici sulle Alpi orientali fino a quando, nel 1958, la stazione fu
assorbita dall’Osservatorio geofisico sperimentale (OGS, ora Istituto nazionale
di oceanografia e di geofisica sperimentale); nel 1963 la stazione fu
trasferita dal centro di Trieste (Campo Marzio) a un sito a basso rumore
ambientale nella Grotta Gigante, e collegata alla rete mondiale World wide
standardized seismographic network (WWSSN), installata dal Servizio geologico
degli Stati Uniti, e facente parte di una rete mondiale dedicata al
monitoraggio delle esplosioni nucleari sia statunitensi che, soprattutto,
sovietiche.
La scossa del 6 maggio 1976 e la
sequenza sismica che seguì nei giorni successivi furono studiate dall’OGS
inizialmente solo con i dati registrati dalla Grotta Gigante, perché era molto
difficile collegarsi con le stazioni vicine a causa delle interruzioni e del
sovraffollamento delle linee telefoniche. Fu dunque difficile individuare
l’epicentro del sisma e per la stima della profondità si poté solo valutare la
natura superficiale dell’evento, le cui scosse, comprese le repliche, vennero
localizzate nei primi 7-10 km. All’inizio si pensò che l’epicentro fosse sul
monte San Simeone, nei pressi della confluenza del Fella nel Tagliamento, poi
si presero in considerazione la fascia pedemontana delle Prealpi Giulie a est
di Gemona e la Val Resia a nordest di Venzone. Infine, l’epicentro è stato
collocato nell’area di Monteprato, tra gli insediamenti di Taipana e Lusevera,
nelle Prealpi Giulie.
La notevole quantità di dati raccolti
dalla stazione di Trieste ha permesso di localizzare 695 scosse da maggio a
ottobre 1976, e una migrazione della sismicità in direzione nordovest.
Il terremoto del 6 maggio 1976 colpì
un’area di 5.700 km2 nel Friuli centro-orientale. All’epoca la sua
forza fu stimata in una magnitudo di 6,5 gradi (ML 6.5, ora Mw 6.42), fra i più
alti mai registrati nell’Italia settentrionale. Fu avvertita in un’area
vastissima, fino al mar Baltico, e venne preceduta un minuto prima da una
scossa dimagnitudo 4,5 (ML 4.5 ora Mw 4,5), considerata una scossa
premonitrice (foreschock) non un evento separato dalla sequenza. La
massima intensità macrosismica fu del X grado nella scala Medvedev-Sponheuer-Karnik (MSK) a Gemona, Venzone, Trasaghis, Bordano, Forgaria, Maiano e
Osoppo. Il terremoto non colpì città densamente abitate: la più vicina, Udine,
situata a soli 30 km dall’epicentro, riportò danni marginali perché il moto del
suolo si attenuò rapidamente verso sud.
Alle 21 della sera del 6 maggio 1976
ebbe dunque inizio in Friuli una delle sequenze sismiche più forti e devastanti
della seconda metà del Novecento in Italia. La sequenza sismica
proseguì con scosse via via meno forti e meno frequenti, placandosi in estate: la
replica più intensa avvenne il 9 maggio (Mw5,08).
Mentre
l’opera di ricostruzione era in atto, si verificarono due terremoti l’11
settembre (Mw 5,25 e Mw 5,60, max Mw
5,58) e altri due il 15 settembre (Mw 5,93e Mw 5,95,max
Mw 6,02), che produssero
ulteriori crolli e altre vittime. Un ulteriore forte terremoto (Mw 5,14)
si verificò un anno dopo, il 16 settembre 1977 seguito da una serie di repliche
che durarono più di un mese.
L’intera
sequenza rappresenta l’evoluzione di un fenomeno complesso che ha interessato
molte strutture tettoniche alpine compressive, spesso cieche, e qualche faglia
dinarica, come per i forti terremoti del 7 e 9 maggio 1976. La scossa del 6
maggio, riconducibile a una faglia inversa alpina a basso angolo, inizialmente
associata alla faglia Susans-Tricesimo,
è stata poi riferita alla linea Buja-Tricesimo; altri studi hanno invece
preferito collegare l’evento sia al sovrascorrimento Tricesimo-Cividale, che a
quello Periadriatico, come per l’evento del settembre 1977 (Mw 5,14),
collocato a ovest del fiume Tagliamento.
La
rassegna delle interpretazioni conferma un catalogo delle faglie attive in
Italia, che individua quattro sorgenti per gli episodi della sequenza friulana:
la faglia Gemona Sud, per l’evento principale del 6 maggio; la linea di
Tarcento, per il sisma dell’11 settembre; quella di Montenars, per la scossa di
magnitudo (Mw 5,93) del 15 settembre; e,
infine, la faglia Gemona Est, per l’evento di magnitudo (Mw 5,95)
del 15 settembre.
La
complessità tettonica del territorio friulano, con i suoi numerosi sistemi di
faglie soprattutto inverse, e il rilascio intermittente di energia elastica, ha
suggerito alla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia di
realizzare una rete sismometrica regionale (inaugurata il 6 maggio 1977) con le
prime tre stazioni, allora attive nell’area epicentrale. Negli anni successivi
il numero delle stazioni ha raggiunto la configurazione attuale di 20 (vedi qui), 15 a corto periodo e 5 a banda larga, a cui si
sommano le stazioni presenti in Veneto
e quelle nelle province autonome di Trento e Bolzano; tutte assieme formano la
rete sismometrica dell’Italia nord-orientale. Ad essa si affianca la rete
accelerometrica regionale (RAF), composta da 14 stazioni che misurano lo
scuotimento effettivo del suolo durante le scosse più forti, fornendo dati
indispensabili per la progettazione antisismica e la valutazione degli effetti
locali. La rete sismometrica e quella accelerometrica sono complementari.
Utilizzando
i dati delle stazioni pubbliche e private, permanenti e temporanee, distanti
meno di 250 km dal Friuli centrale, è stata recentemente eseguita una revisione
dei 2012 eventi con una profondità focale compresa tra circa 5 e 14 km
verificatisi tra la sequenza del 6 maggio 1976 e il 31 dicembre 1977. È stato
così possibile realizzare una nuova interpretazione delle linee sismiche nella
fascia pedemontana friulana, proponendo una nuova chiave di lettura, utile a
capire meglio lo sviluppo della sequenza friulana: è stato così proposto un
nuovo modello strutturale per la sismicità del Friuli, che suggerisce una
stretta relazione tra il sistema trascorrente destro Idria-Ampezzo (dalla valle
del fiume Isonzo nella Slovenia occidentale, all’alta valle del fiume
Tagliamento in Carnia) e i sovrascorrimenti presenti nelle Prealpi Giulie e
nella pedemontana friulana (faglia Gemona-Caporetto, faglia Susans-Tricesimo,
linee di Buja, Pozzuolo, Udine).
Si
è così reso possibile individuare tre fenomeni precursori dell’evento:
1. nella zona di Latisana, nella bassa pianura
friulana rivolta al Mare Adriatico, una zona considerata
fino ad allora asismica, durante l’inverno
1975-76 si verificarono quattro terremoti di bassa intensità,
tra magnitudo 2,5 e 3,5, che vennero
chiaramente avvertiti dalla popolazione. Dopo
il 6 maggio fu ipotizzato che questi episodi fossero un fenomeno precursore,
perché causati da microfratture sviluppate durante la fase di accumulo di
sforzo compressivo precedente al terremoto;
2. nella Grotta Gigante di Trieste il 26
gennaio 1973 fu registrato un salto evidente su entrambe le componenti dei
pendoli Marussi, con disturbi anomali nelle ore successive. Il fatto si ripeté
frequentemente, si interruppe bruscamente con il terremoto del 6 maggio, per
apparire quindi debolmente prima delle scosse di settembre. Da allora, quel
tipo di disturbo non è più stato registrato;
3. nella diga di Ambiesta (a sudovest di
Tolmezzo) si registrarono alcune variazioni clinometriche, così come accaduto
nel precedente terremoto dell’11 ottobre 1954 nei pressi di Gemona.
La maggior parte
delle ricerche condotte hanno dunque consentito grandi progressi anche sul
fronte della prevenzione: «la protezione contro i terremoti», ha scritto
Marcello Riuscetti, docente di Sismologia applicata all’Università di Udine e
uno dei progettisti della Rete Sismica Nazionale, «è un compito complesso che
può essere raggiunto, avendo come prerequisiti una solida conoscenza della
sismicità, una moderna legislazione sismica appropriata per la cultura,
l’economia, le caratteristiche del patrimonio immobiliare e l’organizzazione
socio-amministrativa della nazione, la sua rigorosa applicazione a vecchi e
nuovi edifici ed un efficiente sistema di intervento post-terremoto (gestione
delle emergenze)».P.F. Biagi et al., Le variazioni di inclinazione e la sismicità che
hanno preceduto il forte terremoto del Friuli del 6 maggio 1976, in «Annali di
Geofisica», 29 (1976), pp.137-152; D. Colautti et al., Epicenter distribution and
analysis of 1976 earthquakes and aftershocks of Friuli, in «Bollettino
di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 19, (1976), pp. 457-548; R. Console, Meccanismo
focale del terremoto del Friuli del 6 Maggio 1976, in «Annali di
Geofisica», 29 (1976), pp.165-170; K. Aoudia - P. Suhadolc, Il
terremoto del 6 maggio 1976 e la tettonica attiva in Friuli, in F.
Galadini, C. Meletti, A. Rebez (a cura di), Le ricerche del GNDT nel campo
della pericolosità sismica (1996-1999), Roma, CNR-Gruppo Nazionale per la
Difesa dai Terremoti 2000, pp. 137-141; C. Doglioni, Sismotettonica
dell'Italia nord-orientale e possibile comparazione con gli Appennini, in
F. Galadini, C. Meletti, A. Rebez (a cura di), Le ricerche del GNDT nel
campo della pericolosità sismica (1996-1999), Roma, CNR-Gruppo Nazionale
per la Difesa dai Terremoti 2000, pp. 51-58; M.E. Poli et al., New seismotectonic evidence from
the analysis of the 1976-1977 and 1977-1999 seismicity in Friuli (NE Italy),
in «Bollettino
di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 43 (2002), pp. 53-78; M. Riuscetti, Scenari di
danno nell’area veneto-friulana, in Istituto Nazionale di Geofisica e
Vulcanologia – Gruppo Nazionale per la Difesa dai Terremoti, Relazione
Annuale del Progetto Esecutivo 2002 2° anno di attività nell’ambito del
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Slejko et al., Soil characterization and seismic hazard maps for the Friuli Venezia
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vol. 52, 1 (2011), pp. 59-104; A. Zanferrari et al., Geological map and explanatory
notes of the Italian Geological Map at the scale 1:50.000: Sheet 049 “Gemona
del Friuli”, [Trieste], ISPRA - Servizio Geologico d’Italia - Regione Autonoma
Friuli Venezia Giulia 2013; D. Slejko, What science remains of the 1976 Friuli earthquake?, in «Bollettino
di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 59 (2018), pp. 327-350; D.
Slejko - M. Riuscetti - I. Cecić, The 1976 Friuli earthquake: lessons
learned, in «Bollettino di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 59
(2018), pp. 319- 326; G.B. Carulli, Lo sviluppo degli studi
sismotettonici sulla regione Friuli Venezia Giulia prima e dopo il terremoto
del Friuli del 1976, in «Bollettino di Geofisica Teorica ed Applicata», vol.
60, suppl. 1 (2019), pp. s39-s56; D. Slejko - M. Riuscetti -
I. Cecić, Il terremoto del 1976 in Friuli: un’introduzione, in «Bollettino
di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 60, suppl. 1 (2019), pp.
s3-s8; D. Slejko, Cosa abbiamo capito del terremoto del 1976 in Friuli?,
in «Bollettino
di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 60, suppl. 1 (2019), pp.
s57-s76; M. Riuscetti, Alcune
considerazioni sullo stato della difesa dai terremoti in Italia dopo il
terremoto del Friuli (1976), in «Bollettino di Geofisica Teorica ed Applicata», vol. 60,
suppl. 1 (2019), pp. 91-96; B. FIGLIUOLO, Terremoti, stati e società nel Mediterraneo nel XV
secolo, in «Acta historica et archaeologica
mediaevalia», 16-17 (1995-1996), pp. 95-124; R. CAMASSI et al. (a cura
di), Contributo INGV al WP2 del progetto HAREIA - Historical and Recent
Earthquakes in Italy and Austria: Studio della sismicità storica del Friuli
Venezia-Giulia, Veneto e Alto Adige, Bologna, INGV 2012.