La città verrà distrutta all’alba. È il titolo del film di George
Andrew Romero che, la sera del 6 maggio 1976, era programmato al cinema di
Buja. Cinquant’anni dopo, lo stesso titolo continua a riecheggiare come un
funesto presagio: quella sera, infatti, la terrà tremò per 59 lunghissimi e
interminabili secondi, seminando tra gli abitanti della cittadina alle spalle
di Udine morte e distruzione. Chi non era rimasto sotto un crollo si precipitò
lontano dalle case, nelle strade o nelle piazze che non erano invase dalle
macerie. Nel buio si cominciò a scavare, si pensò di portare i primi feriti in
ospedale ma le strade, sconquassate e ricoperte di pietre e materiale
proveniente dai crolli, erano del tutto impraticabili, così come la rete
ferroviaria. Anche le linee telefoniche smisero di funzionare e al grido di
dolore che ammutoliva la regione reagì solo la voce dei radioamatori, in
particolare quella del gruppo di Buja, che riuscì ad allarmare l’Italia
diffondendo una breve richiesta di aiuto: «Qui è tutto distrutto». Anche dal
centralinista della caserma dei carabinieri di Buja partì un messaggio simile:
«Ci sono morti, moltissimi morti, mandate soccorsi».
L’eco del boato che precedette il
sisma e le urla di paura della gente rimasero impresse in una musicassetta su
cui la sera del 6 maggio Mario Garlatti, allora liceale di Udine, stava
riversando l’album dei Pink Floyd Wish you were here, ignaro del fatto
che di lì a poco avrebbe registrato il rumore dell’orcolat. L’antico
mostro si era risvegliato e nel suo movimento ondulatorio e sussultorio aveva
provocato una scossa di magnitudo 6,4 gradi (Mw 6,42) con epicentro nell’area di
Monteprato, tra Taipana e Lusevera, nelle Prealpi Giulie, e che fu avvertita in
tutto il Nord Italia. Fu investita l’area dell’alta pianura friulana a nord di
Udine e le comunità poste sui fianchi delle Prealpi Carniche e Giulie: 45 i
comuni che sarebbero stati definiti come “disastrati”, tra cui i principali furono Gemona,
Artegna, Venzone, Buja, Pinzano al Tagliamento, Osoppo, 40 quelli “gravemente
danneggiati” e 52 i “danneggiati”, tutti posti fra Udine e Pordenone, più tre
comuni della provincia di Gorizia.
All’alba del giorno seguente, ovunque,
le persone, aiutate dai primi soccorritori e dai volontari, si rimboccarono le
maniche per cercare chi era disperso, nel pericolo continuo dei crolli. La
ricerca dei sopravvissuti durò per giorni. A Trasaghis Guido
Vergani, giornalista del «Corriere della sera», raccolse la voce di una donna
sconfortata e seduta sui gradini del monumento ai caduti: «Mio genero è là
sopra, sta lavorando per tirar fuori i suoi due figli, Caterina di quattro anni
e Luca di otto mesi. Mia figlia Anna l’hanno tirata fuori questa mattina già
morta». Al cuore dell’opinione pubblica nazionale giunse la storia del piccolo
Paolo Fabris, figlio di un farmacista, che a Osoppo rimase sepolto sotto la sua
casa per 21 ore consecutive, prima di essere portato in salvo. Subito
pesantissimo il bilancio delle vittime: le prime cifre indicarono 977 morti (qui
l’elenco nominativo delle vittime), tra cui, secondo una stima provvisoria,
almeno 150 bambini. Rispetto al numero dei residenti, la percentuale più alta
di morti venne registrata nel comune di Montenars, mentre la cittadina di
Gemona registrava il triste primato in numeri assoluti: più di 400 morti. Il
bilancio dei feriti si fermò alla cifra di 2607.
Spaventoso il numero delle case
sinistrate, nessuno poteva immaginare che si arrivasse a certificare il crollo di 18 mila edifici
e altri 75 mila danneggiati, segno di un territorio
ancora dominato dalla piccola proprietà agricola con abitazioni vetuste. Quasi
tutti i centri storici furono lesionati, molti monumenti furono sventrati, come
il duomo di Sant’Andrea Apostolo a Venzone, il castello di Colloredo di Monte
Albano e il duomo di Santa Maria Assunta a Gemona del Friuli, drammaticamente
definito in un numero speciale del «Messaggero Veneto» dell’8 maggio «uno
scheletro su una città piena di morti e di rovine». Dopo aver trascorso la
nottata a Magnano in Riviera aiutando i feriti, così l’Ispettore forestale Aldo
Barbina descrisse lo scenario che si presentò ai suoi occhi rientrando in auto
verso Udine: «Castelli distrutti, case fracassate, casolari ridotti a macerie,
costruzioni in cemento armato in piedi, ma piegate da un lato, un condominio
intatto, ma i pilastri a piano terra sono tutti inclinati, fabbriche
frantumate, case in apparenza sane ma a cui manca un piano». Nemmeno gli
stabilimenti industriali resistettero all’impatto: molti che persero la casa, e
magari qualche famigliare, si trovarono per sovrappiù senza un posto di lavoro.
Le salme erano troppe, i cimiteri
piccoli, motivo per cui in diversi paesi fu necessario realizzare delle fosse
comuni per tumulare le vittime. In mancanza dei famigliari e dei vicini era il
parroco ad effettuare il riconoscimento dei corpi, per evitare che le
amministrazioni comunali, nella fretta di dare sepoltura per evitare il
diffondersi di possibili epidemie, etichettassero tutti i morti come
“sconosciuti”. A Osoppo il parroco don Dino Pezzetta si trovò di fronte a due
sorelline, Genni di un anno e Sonia di tre, ancora abbracciate, senza vita:
alla domanda di un giornalista dell’agenzia di stampa britannica Reuters che
gli chiedeva «Lei è un prete? Crede in Dio?», il sacerdote rispose
laconicamente «Non lo so». Straziante il primo funerale celebrato nel cimitero
di Majano a pochi giorni dal terremoto: una fila di bare contornava il
camposanto, mentre la folla, trattenendo le lacrime, ascoltava l’omelia e il
messaggio di fiducia di don Giuseppe Ribis: «Ricostruiremo tutto, lo faremo per
le nostre famiglie, per il nostro Friuli, per tutto il mondo».
Eloquenti le parole del direttore del
Messaggero Veneto, Vittorino Meloni che, criticando aspramente le fiumane di
fotoreporter giunti nei paesi sinistrati, così elogiò la tenacia dei friulani a
poche ore dalla catastrofe: «Sono sbalorditi, i fotografi dei grandi rotocalchi
italiani ed esteri, di non trovare qui del pathos, di non avere scene di
persone in deliquio, di non continuare cioè la sequenza delle storie
strappalacrime. Quasi non ci credono, si appigliano a spiegazioni psicologiche,
si ripromettono di essere più fortunati, in un’inutile ricerca, oggi o domani.
Questa è un’altra prova che non conoscono i friulani e il Friuli. Lo vedranno,
lo impareranno, capiranno bene, alla fine, qual è il Friuli, e come sa
reagire».
Anche l’inviato speciale del
quotidiano «Paese Sera», il grande scrittore Gianni Rodari, in un articolo del
9 maggio intitolato Drammatica gara col tempo per salvare i sepolti vivi,
ricordò la rapidità con cui le persone provavano a rialzarsi: «Non si vede più
nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che
c’era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un’altra cosa,
non si sa ancora che cosa sarà».
In questa tragica situazione non venne
meno la vicinanza dei politici. Il 7 maggio visitarono i comuni colpiti il
presidente della Repubblica, Giovanni Leone, assieme ai ministri dell’Interno
Francesco Cossiga e del Lavoro Mario Toros, mentre l’8 maggio giunse il
presidente del Consiglio dei ministri Aldo Moro. Appena atterrato il 7 maggio
con l’elicottero a Osoppo, al capo dello Stato si avvicinò un operaio con i
vestiti sporchi di calcinacci e le mani insanguinate. Rivolgendosi al
presidente esclamò con fermezza: «Vede quelle case distrutte? Debbono risorgere. Ma
non soltanto le case, anche quello stabilimento laggiù deve rinascere. È la
fabbrica che ci dava lavoro». Nei giorni successivi arrivò in regione pure il
vicepresidente USA Nelson Rockfeller, la cui presenza venne ampliamene lodata
dalla stampa: Arriva d’oltre oceano una prova di stima e di solidarietà.
Rockfeller: abbraccio dell’America al Friuli titolava il 14 maggio la prima
pagina del «Messaggero Veneto».
Al terremoto di maggio, ai suoi 40
mila sfollati e senza casa, si reagì con un piano di approntamento di
insediamenti provvisori (“tendopoli”). Ben presto ci si rese tuttavia conto che
la ripresa avrebbe richiesto tempi più lunghi rispetto a quelli preventivati,
anche solo per l’installazione dei prefabbricati. Alla fine di agosto, con il
pensiero dell’autunno che si stava avvicinando, il disagio era sempre più
evidente, e si moltiplicavano le proteste, le manifestazioni popolari. La
situazione precipitò quando la terra riprese a tremare e dopo le due violente
scosse registrate sabato 11 settembre (max Mw
5,58), la stessa area venne messa in
ginocchio la mattina di mercoledì 15 settembre da due ulteriori fortissime
scosse (max Mw 6,02).
Nuovo pauroso ritorno del terremoto. Terrore in
Friuli. La gente fugge riportava la prima
pagina del «Gazzettino», mentre il «Messaggero Veneto» titolava Giornata
infernale per il Friuli, paragonando le scosse del 15 settembre per danni e
intensità a quelle della notte del 6 maggio. Nei comuni già colpiti, quello che
la sera del 6 maggio era rimasto miracolosamente in piedi crollò, lasciando
dietro di sé distese di macerie. Uomini e donne, giovani e anziani impotenti
dinnanzi ad una tale calamità, ripiombarono nella disperazione, molte delle
case che erano state riparate in tre mesi crollarono o furono gravemente
danneggiate, e con esse ogni speranza di rinascita. Il giornalista Gianpaolo
Carbonetto, fermo in colonna alle porte di Venzone alle 11.21 di mercoledì 15
settembre, osservò con i suoi occhi cadere a terra le mura già pericolanti del
duomo. Quattro mesi di resistenza e sforzi sembrarono essere vanificati in una
manciata di secondi. A Gemona, chi fino a qualche giorno prima lavorava
ininterrottamente per sistemare la casa costruita con anni di sacrifici si
ritrovò nello spiazzo ghiaioso del municipio ad aspettare con la valigia in
mano di salire sul pullman che portava i nuovi sfollati verso gli alberghi del
litorale, ormai vuoti di turisti: «Coraggio, ci vediamo presto!», fu l’augurio
del sindaco Ivano Benvenuti alla sua gente obbligata ad abbandonare il paese in
cui era nata e cresciuta.