La valutazione dei danni

 

La valutazione dei danni costituì il primo passaggio tecnico di un sistema che venne definito sul campo, all'interno di una rete di comuni che era all’epoca del tutto sprovvista di competenze per affrontare un'emergenza di dimensioni eccezionali sia per estensione che per gravità.

Come hanno messo in luce Giorgio Dri e Roberto Gentilli, due professionisti che vissero in prima persona quell'esperienza, nella loro analisi pubblicata dalla rivista dell'Ordine degli ingegneri nel 2016, il rilevamento dei danni, attuato con carattere d’urgenza, ha costituito il primo significativo momento in cui mondi della politica, da una parte, e tecnici, dall’altra, dovettero confrontarsi e trovare soluzioni condivise. «Per i politici», scrivono Dri e Gentili, «la necessità fondamentale era quella di fare presto (“dalle tende alle case”) concedendo il massimo riconoscimento ai sindaci e soprattutto ai proprietari, nella convinzione che quest’ultimi, con l’esperienza vissuta in prima persona, potessero meglio valutare (ed eventualmente indirizzare) gli interventi pubblici. Per i tecnici, l’importante era cercare di evitare grossi errori e conseguire una decente uniformità nelle valutazioni del danno compiute in condizioni non soltanto difficili dal punto di vista logistico, psicologico e, talvolta, dell’incolumità personale, ma anche sotto la pressione di un’opinione pubblica che avrebbe voluto che gli accertamenti tecnici (preliminari alla concessione dei contributi) fossero esauriti in tempi molto brevi».

Superate quindi le fasi immediate dei soccorsi e della messa in sicurezza degli edifici lesionati, il primo obiettivo fu quello di provvedere all’inventario dei danni in vista delle riparazioni, anche alla luce di quanto previsto dalla prima legge regionale in materia, la L.R. 15 del 10 maggio 1976, che concedeva l’erogazione di «contributi in conto capitale sino al 90 per cento della spesa per la riparazione e la ricostruzione, anche sostitutiva, di abitazioni private distrutte o gravemente danneggiate».

Pochi giorni dopo, il Consiglio regionale, all'unanimità, diede il via libera a una norma successiva legge, la L.R 17 del 17 giugno (Interventi di urgenza per sopperire alle straordinarie ed impellenti esigenze abitative delle popolazioni colpite dagli eventi tellurici del maggio 1976 nel Friuli-Venezia Giulia) che, come si evince dal verbale della seduta del Consiglio regionale durante il quale venne discussa, proponeva di garantire «un rapido ed efficace aiuto alla popolazione colpita dal disastroso sisma, in seguito al quale è rimasta senza l’abitazione ed è costretta ora ad alloggiare nelle tendopoli». L’obiettivo era lo snellimento burocratico: venne fissato un tetto di spesa pari a 6 milioni di lire per ogni alloggio di «non grossa entità» da riparare, senza escludere la possibilità di eseguire anche interventi strutturali.

L’intento del legislatore era quello di limitare gli interventi alle sole riparazioni e di escludere per il momento le opere strutturali, per evitare soprattutto di cadere nelle disposizioni previste dalle leggi antisismiche, limitando gli adempimenti per consentire in tempi celeri il passaggio dalle tende alle case riparate.

Oltre alla questione dell’urgenza, la stesura della norma imponeva al legislatore alcune scelte, prima fra tutte quella di decidere se fosse preferibile un intervento pubblico o privato. Poi, se fosse meglio organizzare appalti “accorpati”, che comprendessero cioè più lavori, oppure se favorire le iniziative individuali dei singoli. Su questi aspetti i tecnici avevano opinioni diverse dai politici: i primi, basandosi su una valutazione concreta delle capacità operative delle imprese e dei cittadini, erano favorevoli a unificare gli interventi in operazioni più ampie, mentre i politici temevano che questo approccio potesse limitare l’azione dei cittadini danneggiati e le scelte strategiche delle amministrazioni locali. Sebbene nelle bozze della legge le due modalità di intervento fossero considerate equivalenti, nel testo finale l’intervento pubblico fu limitato alla “facoltà”, per i sindaci, di stipulare accordi con le imprese, facilitando e rendendo così meno onerosa l’esecuzione dei lavori (ma questa opzione venne poco utilizzata).

Per valutare i danni l’ammontare dei contributi da erogare e la tipologia di riparazione più idonea in ogni comune uno o più gruppi di tecnici rilevavano lo stato degli edifici non irrimediabilmente danneggiati. Per poter eseguire questa valutazione con un criterio uniforme e attendibile, l’ingegnere udinese Marcello Conti stese una “Scheda di verbale di accertamento dei danni” sulla quale i rilevatori riportavano un «giudizio sintetico» sulle condizioni dell’edificio che poteva essere catalogato come “distrutto”, “non ripristinabile” o “ripristinabile”. Nel caso di quest’ultima condizione, il compilatore doveva indicare se si trattava di un intervento totale o parziale e se si rendeva necessaria l'esecuzione di opere strutturali.

Per valutare la convenienza del ripristino, nella scheda non doveva mancare l'indicazione del valore dell’edificio al 5 maggio e del costo presunto per l’intervento di riparazione, calcolato come sommatoria dei “costi unitari elementari” riferiti ai principali elementi costruttivi Questo metodo macchinoso per il calcolo dei costi di riparazione evitava qualsiasi indicazione di carattere progettuale da parte dei rilevatori: venivano unicamente fornite indicazioni generali utili a quantificare l’intervento, senza un approfondito esame strutturale, che si immaginava potesse aver luogo in un momento successivo, comunque prima del ripristino.

Nell'animato dibattito in Consiglio regionale si decise però che i gruppi di rilevamento avrebbero dovuto determinare anche le necessarie opere di riparazione e che al verbale di accertamento venisse aggiunto un foglio contenente le “Indicazioni di massima sulle modalità tecniche dell’intervento di ripristino”; in alcuni casi tali indicazioni si rivelarono causa di malintesi e di proteste da parte di chi, tra i destinatari dei contributi, si aspettava un progetto strutturale esecutivo.

Ogni gruppo di rilevamento era formato da tre tecnici, funzionari pubblici o esperti iscritti agli albi degli ordini e collegi professionali regionali, affiancati da colleghi provenienti da tutt’Italia. Nell’arco di quattro mesi furono organizzate e messe in campo 390 terne, che compilarono oltre 85 mila schede di sopralluogo.

Ogni costruzione richiedeva valutazioni tecniche, sotto il profilo costruttivo e statico, econmico e anche umano. La composizione delle terne doveva tenere conto della rotazione dei tecnici per garantire in ogni gruppo la presenza di professionisti esperti assieme a quelli più giovani. I componenti delle terne furono per il 40 per cento geometri, quindi ingegneri, architetti, e per un 10 per cento periti. L’operazione di rilevamento dei danni iniziò in tempi rapidi: alla fine di giugno, dopo nemmeno due mesi dalle scosse, erano già state costituite quasi 200 terne. Nonostante le critiche che questa operazione inevitabilmente suscitò, il loro operato consentì di raccogliere un numero rilevante di stime, in un tempo relativamente breve con una considerevole uniformità di giudizio. Tra maggio e settembre i tecnici stimarono danni per quasi 250 miliardi di lire. Interrotta dalla nuova emergenza sismica che richiese un cambio di passo, la raccolta dei dati sarebbe stata completata nel primo semestre del 1977. Venne utilizzata da docenti delle due università regionali – Giovanni Battista Carulli e Dario Slejko a Trieste, Marcello Riuscetti a Udine – per lo studio sulla vulnerabilità e valutazione del rischio sismico.

In una sua memoria, il segretario generale straordinario per la ricostruzione Emanuele Chiavola chiarì le motivazioni di questa operazione iniziata nel maggio 1976: si pensava che sulla base dei dati raccolti con le schede si sarebbero potuti erogare i contributi per le riparazioni, alla cui realizzazione avrebbero provveduto direttamente i cittadini che premevano per un veloce rientro nelle proprie case al motto: “non vogliamo baracche”. Chiavola dovette però riconoscere che «il duro impatto con una realtà ben diversa si ebbe il 15 settembre»: le conseguenze del nuovo terremoto che non risparmiò le case già riparate costrinsero tutti ad ammettere che il piano delle riparazioni, impostato su ripristini superficiali alle murature, senza prevedere interventi strutturali antisismici, si rivelava irrealizzabile e destinato al fallimento. Il contraccolpo psicologico fu violento al punto da mettere perfino in discussione il principio della riparazione e della ricostruzione “dov’era e com’era”. Lì per lì si fece strada l’idea che il rafforzamento antisismico delle costruzioni esistenti non fosse possibile, e tantomeno conveniente, e che fosse preferibile demolire gli edifici danneggiati per ricostruirli ex-novo, anche in un luogo diverso.

Passato quel momento di sconforto e di ripensamento, si riconsiderò l’ipotesi di procedere alla riparazione antisismica degli edifici danneggiati: il 30 giugno 1977 venne quindi presentata una nuova legge regionale specifica, per normare le riparazioni (L.R. 30 del 20 giugno 1977), sulla base del fatto che la riparazione delle abitazioni non potesse essere considerata un intervento urgente, bensì qualcosa di più meditato e definitivo. Come si espresse il Consiglio regionale nell’ambito della discussione sulla legge, la ricostruzione avrebbe rappresentato «un elemento fondamentale […], il cui primo criterio dovrà essere quello di armonizzare, in un contesto equilibrato e razionale, le nuove costruzioni con la parte recuperabile del patrimonio edilizio colpito».

R. Gentilli, Politica e tecnica dopo il terremoto friulano, in «Parametro», 251 (2004), pp. 68-72; E. Chiavola, Analisi critica delle strategie messe in atto dopo il terremoto del 1976, in «Ingegneria Sismica», 1 (2010), pp. 3-7; E. Chiavola, Emergenza e ricostruzione dopo il terremoto: analisi del processo, in «Ingegneria Sismica», 1 (2010), pp. 8-14; G. Dri - R. Gentilli, L’impegno dei professionisti nella prima emergenza, in «Rassegna Tecnica del Friuli Venezia Giulia», 2 (2016), pp. 23-26; A. Cravero, Tra le macerie del Friuli, in P. Abrami - E. Miani - M. Peron (a cura di), Sistema ‘76. Sostegno, fiducia e tempo per la rinascita del Friuli terremotato. Il contributo dei tecnici, [Reana del Rojale (UD)], Chiandetti editore 2017.