Alle
prime luci dell’alba del 7 maggio si apriva agli occhi dei friulani uno
scenario catastrofico, punteggiato da edifici pericolanti, case sventrate e
strade invase dai calcinacci. Le aree minacciate da crolli furono isolate e segnalate con cartelli di pericolo:
«È assolutamente vietato avvicinarsi od entrare. Chi si avvicina od entra lo fa
a proprio rischio e pericolo e sotto la sua personale responsabilità». In questo
clima i tecnici
incaricati diedero
disposizioni per demolire ciò che costituiva un problema di sicurezza e
sembrava non poter essere recuperato. Ad Artegna, all’indomani del terremoto il personale del
Genio civile iniziò a tracciare la lettera “D” sulle costruzioni da abbattere:
delle 971 case censite prima del sisma furono 462 quelle rase al suolo,
malgrado la resistenza dei proprietari. Alcuni di loro invano scrissero sulle
mura di quelle abitazioni «non ancora» o cercarono di cancellare la lettera che
indicava la distruzione; altre famiglie si limitarono invece a lasciare un
cartello indicando l’indirizzo al quale si erano trasferite e implorando gli
operai di avvisarle prima di procedere con la demolizione. Lo stesso modus operandi fu applicato
in quasi tutti i centri disastrati: a
Cavasso Nuovo vennero abbattuti 244 fabbricati perché segnati da crepe e irrimediabilmente
minati nelle loro strutture, mentre a Cavazzo Carnico il sindaco sottoscrisse
110 ordinanze di demolizione. Eloquente la tragica situazione di Gniva,
frazione di Resia, dove vennero risparmiate soltanto 6 delle 75 case esistenti
e venne rasa al suolo anche la chiesa settecentesca.
Il Friuli tra ansia di rifare e necessità di eliminare quel
che è pericolante. Purtroppo si deve demolire oltre il terremoto,
così titolava il 3 giugno 1976 l’articolo di apertura del «Messaggero Veneto»,
con una sequenza di quattro fotografie che mostravano la fine dell’ala nord del
nuovo complesso ospedaliero di Gemona, abbattuta dagli artificieri del
Reggimento genio guastatori, con 78 chili di tritolo, a sei anni di distanza
dalla posa della prima pietra. Lo stesso quotidiano il 15 giugno titolava Si
completa la demolizione prima di pensare alle case, raccontando quanto
accadeva a Trasaghis, dove stuoli di operai con elmetto e mascherina
parapolvere impedivano l’accesso a tutti coloro che desideravano recuperare ciò
che era rimasto delle loro cadenti abitazioni. Si demoliva per evitare nuovi
crolli e garantire spazi urbani sicuri ai sopravvissuti, una scelta dovuta al
fatto che sotto il profilo tecnico, in quegli anni, non venivano considerate
riparabili strutture murarie gravemente lesionate.
Le
opere di demolizione colsero alla sprovvista anche i friulani emigrati
all’estero che decisero di rientrare in regione. Un articolo del «Messaggero
Veneto» del 17 giugno intitolato Brandelli di case e tante memorie
ricordava l’esperienza di Davide Stefanutti che, ritornato a Interneppo dopo
quarantadue anni di emigrazione, ricevette l’ordine di demolizione, di fronte
al quale ebbe la sola forza di dire: «Mi basterebbero una cucinetta e due
stanze, magari una sola».
A una
settimana dal sisma, l’assessore regionale ai Lavori
pubblici Ermanno Rigutto, nel tracciare il primo bilancio di questa fase di
gestione dell’emergenza, descrisse l’assistenza che i funzionari regionali
potevano dare ai comuni per le demolizioni: Dopo aver ricordato che erano già
stati effettuati più di 300 interventi tra demolizioni, puntellamenti e
ripristino della viabilità, affermò che la Regione intendeva dare ampia libertà
nell'opera di ricostruzione da affidare ai comuni, con l’approvazione, in via
definitiva, dei piani particolareggiati di lottizzazione. Riferì poi
che un gruppo di studio era già al lavoro per programmare la ricostruzione e
preannunciò la predisposizione di un disegno di legge apposito per il
ripristino dei centri storici e l'opera di riedificazione.
Complice
la massiccia presenza nei paesi delle squadre dei Vigili del fuoco, in diversi
comuni cominciò a emergere la tendenza a favorire gli abbattimenti e le
demolizioni, a fare «piazza pulita» delle strutture edilizie lesionate e
pericolanti in modo da consentire il rientro di almeno una parte della
popolazione nelle abitazioni. Molti si fecero cioè persuasi che la demolizione
rappresentava una condizione essenziale per avviare con maggiore velocità la
ricostruzione, una speranza sulla quale si sarebbe presto però abbattuta la
scossa del 15 settembre.
Ma una
sistemazione, anche provvisoria, richiedeva tempo. Osoppo, a 12 giorni dal
terremoto, era disseminata di macerie e, come scrisse Mario Passi su “L’Unità”,
alle finestre del pianterreno erano affissi i fogli-verbale degli accertamenti
di agibilità eseguiti sulle abitazioni dell'intero comune: «Strada per strada,
numero civico per numero civico, la dicitura “inabitabile” scritta a macchina,
appare ripetuta decine di volte sui fogli di via Rivoli, di via Peschiera,
“abitabile” prevale invece in via Matteotti, in via Buia. Nelle altre, c'è
quasi un pari e patta». Lo stesso giornalista aveva scritto, alcuni giorni
prima, che negli antichi borghi, nelle cittadine cariche di memorie e di
testimonianze artistiche, come Gemona. Tarcento, Colloredo. Venzone, Artegna.
San Daniele, e nelle aree rurali, l’esigenza di far presto si sommava a
quella di salvare quanto più possibile del volto urbano e del patrimonio
edilizio storico; «per restituire l'immagine di un Friuli che nessuno vorrebbe
perduta per sempre».
Il
3 giugno 1976, al giornalista del «Messaggero Veneto» Ciro Migliore, il sindaco
di Tarcento Enzo Maria Gioffrè riferì che, da una prima stima, circa il 70 per
cento degli edifici era da demolire. A quasi un mese dal terremoto, Gioffrè
aveva già firmato 350 ordinanze di demolizione. «Abbiamo l’obbligo» spiegava
«di far demolire gli edifici pericolanti affacciati sulle pubbliche vie che
costituiscono un pericolo per la cittadinanza». Il piano delle demolizioni sarà
completato nel 1978 dal suo successore, Giancarlo Cruder, che firmerà altre 800
ordinanze.
Poco
a poco iniziò però a diffondersi una diversa consapevolezza: tutto ciò che
poteva essere riattivato e recuperato senza procedere a demolizioni e a
rifacimenti ex novo veniva preservato perché consentiva di ipotizzare il
rientro di almeno una parte della popolazione nelle abitazioni. A Gemona la
soprintendenza impose la chiusura del centro storico e proibì qualsiasi
demolizione, anche con l’ausilio della vigilanza armata. Il 16 maggio entrò poi
in azione un reparto tedesco di militari del Genio specializzato in
demolizioni, in grado di operare nel centro storico assieme ai Vigili del
fuoco, liberando le strade, puntellando gli edifici eseguendo abbattimenti
mirati ai soli elementi davvero pericolanti.
Di
fronte al diffondersi di azioni che mettevano in pericolo anche il patrimonio
artistico, il 3 giugno sindaci, parroci e operatori culturali di Venzone,
Gemona, Artegna, Montenars, Magnano, inviarono al Ministro dei Beni culturali
Mario Pedini un accorato appello. Vi contestavano l’operato dell’“Ufficio
speciale” di coordinamento istituito dal Ministero che, a causa della mancanza
di personale in loco, non aveva potuto evitare demolizioni “gravissime” che
avrebbero costretto a recuperare in discarica resti preziosi. Tra i firmatari
c’era lo stesso sindaco di Venzone, colui che, negli anni successivi, contribuì
alla ricostruzione filologica
del borgo storico con il suo duomo trecentesco e il suo campanile, già
monumento nazionale dal 1965.
Analoga sensibilità sarà onorata dal legislatore regionale
che darà corpo ad uno strumento legislativo con il quale garantire la tutela
dell’edilizia dei piccoli borghi rurali: l’articolo 8 della L.R. 63 del 23
dicembre 1977 per la ricostruzione post-terremoto avrebbe infatti definito
modalità per rivedere lo strumento urbanistico in vigore, stabilendo criteri e
obiettivi predisponendo piani particolareggiati per gli agglomerati urbani
gravemente danneggiati dal sisma.