«Il Friuli ringrazia e non dimentica». Qualcuno lo scrisse sui muri nei giorni più drammatici, certo che quel grazie sarebbe riecheggiato per sempre. Così è stato perché «il massiccio e rapido afflusso di volontari provenienti da altre regioni fu certamente uno degli aspetti più nuovi ed interessanti del dopo-terremoto in Friuli», come scrisse Robi Ronza nel suo pamphlet Friuli dalle tende al deserto?.
Qualcosa di simile si era visto solo con gli angeli del fango arrivati a Firenze per l’alluvione del 1966, ma su ben diversa scala. Non si era, ad esempio, verificato dopo il terremoto del Belice del 1968. Un ruolo strategico nella primissima gestione dei soccorsi lo svolsero i radioamatori, che supportarono, affiancandola, la struttura commissariale. In assenza di comunicazioni telefoniche, con tutte le linee interrotte e quelle militari in grande difficoltà, divenne fondamentale l’apporto dei radioamatori e dei CB (citizen’s band), i cosiddetti baracchini. Furono loro a lanciare l’allarme, ad attivarsi immediatamente e a garantire, nelle zone più colpite, le comunicazioni tra i sindaci, la prefettura e i soccorsi. A partire dalle ore immediatamente successive al sisma, in migliaia, giunti da tutta Italia e dall’estero, offrirono il loro contributo con un ponte mobile arrivato dall’Emilia Romagna a supporto dell’unico ripetitore allora disponibile, collocato sul monte Matajur.
La mobilitazione dei volontari fu, in generale, straordinaria. A iniziare dagli emigranti e dai loro discendenti radunati in tutto il mondo dalla rete dei Fogolàrs furlans. Persone legate al Friuli per diversi motivi partirono la notte stessa, da ogni luogo, per venire a soccorrere amici, parenti o, semplicemente, coloro che avevano perso tutto. Da Milano si formò una prima colonna di una ventina di mezzi di varie associazioni di assistenza lombarde, tra queste la Croce rosa-celeste, la Croce bianca, la Croce d’oro, la Croce verde e i donatori di sangue dell’Avis. Raggiunsero le zone disastrate con autoambulanze e furgoni carichi di generi di primo soccorso, coperte, viveri e con il centro mobile di rianimazione dell’autodromo di Monza. Uno dei volontari, Roberto Ghisi, allora studente di Medicina, raccontò di essere arrivato con l’autocolonna, nel pomeriggio del 7 maggio, in prefettura a Udine. Le due autoambulanze della Croce rosa-celeste nelle quali operava erano destinate a Gemona, dove il giorno seguente li avrebbe raggiunte una terza ambulanza. Appena arrivati, nella notte tra il 7 e l’8 maggio, soccorsero alcune persone alle case Fanfani, estrassero dalle macerie una donna ferita che ancora abbracciava il figlio morto e la portarono all’ospedale di Udine. Si salvò. Nei restanti quattro giorni di permanenza in Friuli, Ghisi e i suoi colleghi, a Gemona e nei centri vicini, recuperarono una trentina di vittime. Questa è solo l’attività di uno dei tanti gruppi che, a cadenza settimanale, si davano il cambio giungendo da Milano con mezzi carichi di tende e cucine da campo.
Da Torino anche la Croce verde mise a disposizione un’autoambulanza affiancata da furgoni con tende e generi alimentari. Da Varese partirono con le macchine movimento terra, da Lastra, in provincia di Firenze, giunse un’autoambulanza accompagnata da sette mezzi, tra camion e furgoni carichi di aiuti.
A mezzo secolo di distanza dal terremoto è impossibile citare tutti gli esempi di solidarietà registrati allora in Friuli. A Udine i volontari si presentavano all’ufficio di coordinamento creato in Prefettura e da qui venivano destinati ai luoghi del disastro. Tra le associazioni più strutturate, che si distinsero nei soccorsi, ricordiamo l’Associazione nazionale alpini (Ana) e gli Scout. Già nella notte del 6 maggio l’Ana aprì la sede udinese per coordinare i soccorsi dei suoi affiliati. Il presidente nazionale Franco Bertagnolli accorse subito nelle zone colpite e, compresa la gravità della situazione, propose al consiglio direttivo l’istituzione di undici cantieri di lavoro autonomi e autosufficienti gestiti direttamente dall'Associazione. Alla fine di maggio si costituirono i gruppi di intervento aggregando le sezioni nazionali dell’Ana. Da metà giugno a metà settembre oltre 15 mila alpini in congedo lavorarono nei cantieri, dislocati a Magnano in Riviera, Buja, Gemona, Villa Santina, Majano, Moggio, Osoppo, Cavazzo, Pinzano e Vedronza. Ripristinarono 76 edifici pubblici, ripararono oltre 3 mila case e 63 mila metri quadrati di tetti, effettuarono lavori di recupero ambientale e sistemazioni idrauliche. In quell’estate l’Ana lanciò la campagna Quest’anno le ferie degli Alpini in Friuli e la risposta fu massiccia. L’attività degli alpini fu talmente eclatante da convincere il Congresso USA ad affidare all’Ana il programma di aiuti dell’Agency of International Development (Aid) per la costruzione di scuole e centri per anziani.
Nei luoghi del disastro arrivarono anche migliaia di boy scout appartenenti alle due maggiori associazioni, la cattolica Agesci e la laica Cngei. Giunsero da tutta Italia e dall’Europa, in particolare da Austria, Svizzera e Lussemburgo. Costituirono i loro centri di coordinamento e misero a disposizione la loro esperienza nell’allestimento e nella gestione delle tendopoli, dotate di cucine da campo e bagni mobili.
L’Agesci garantì in due fasi la presenza di 7.146 scout. Nella prima, dedicata principalmente ai soccorsi che iniziò il 7 maggio per concludersi il 30 giugno, giunsero nelle zone disastrare, da sedici diverse regioni, oltre 3 mila giovani. Nella seconda fase, quella che proseguì fino al 3 ottobre, ne arrivarono altri 4 mila. Complessivamente garantirono quasi 40 mila giornate lavorative. Gli interventi venivano coordinati dalla centrale operativa allestita nella parrocchia del Carmine a Udine, in via Aquileia, dove le squadre dell’Agesci arrivavano e si davano il cambio, e dai sei campi base presenti nel territorio, da cui i volontari raggiungevano le località terremotate. Passata l’emergenza, l’azione degli scout Agesci divenne preziosa anche per la ricomposizione del circuito sociale, attraverso attività di animazione in cui i protagonisti erano i bambini ospitati nelle tendopoli e nei villaggi temporanei: nell’estate del 1976 aprirono 24 centri estivi per accogliere i ragazzi e sottrarli ad un presente fatto di macerie e dolore.
Anche i volontari del Cngei operarono in migliaia, dalla mattina del 7 maggio al 30 agosto, attraverso il centro di coordinamento allestito nelle scuole elementari di via Caccia a Udine. Al campo principale denominato campo mandi di Chiusaforte si aggiunsero quelli di Nimis, Majano, Faedis e Avasinis. Al campo mandi arrivano anche operai dalla Lombardia che collaborarono nella gestione delle infrastrutture a Chiusaforte e in Val Raccolana. Pure la neonata sezione italiana della FSE, la Federazione scout d’Europa, si mobilitò per far arrivare gli aiuti raccolti dal Comune di Roma nelle valli del Natisone.
Immediata fu anche la risposta della Caritas. Le chiese locali di tutto il mondo, coordinate dalla Caritas internazionale, si attivarono per portare il loro aiuto alle popolazioni segnate dal terremoto. Già l’8 maggio la Caritas italiana mise a disposizione dei terremotati friulani una forte somma di denaro, mentre la Caritas diocesana di Genova inviò 30 tendoni. Nella prima domenica dopo il disastro la Conferenza episcopale italiana (Cei) avviò una raccolta fondi per finanziare i primi interventi e offrì la disponibilità di molte famiglie ad accogliere nelle loro case i senzatetto. Per assicurare la continuità degli aiuti, la Caritas organizzò gemellaggi tra una diocesi italiana e una parrocchia colpita dal terremoto. Vennero istituiti pure i campi di lavoro per convogliare volontari specializzati in edilizia pronti a devolvere ai friulani un mese di lavoro.
Tutto questo avveniva mentre, a Udine, l’arcivescovo Alfredo Battisti istituiva due centri di coordinamento per i soccorsi: uno in Arcivescovado, l’altro all’Opera diocesana di assistenza (Oda) di via Aquileia, ed esortava i sacerdoti «a mettere a disposizione il ricavato dalla vendita dei doni votivi, non soggetti alla tutela della Sovrintendenza». Monsignor Battisti chiese personalmente a tutti i vescovi del Triveneto di inviare in Friuli tende sufficientemente grandi per ospitare le famiglie rimaste senza casa. Lo stesso impegno venne garantito a Trieste, dove i vertici della Federazione universitaria cattolica Italiana (Fuci) raccolsero materiali e adesioni per intervenire a Torlano, Chialminis, Ramandolo, Villanova delle Grotte, Montemaggiore, Platischis, Debellis, Artegna, Sornico, a Montenars, nella frazione di Santa Maria Maddalena e a Stella (Tarcento). All’iniziativa aderì anche il movimento giovanile dell’Unione degli Istriani.
Altri aiuti arrivarono dagli ambienti cattolici lombardi, in particolare dal movimento Comunione e liberazione di don Luigi Giussani. Su invito del vescovo Battisti i volontari di Comunione e liberazione, attivi all’Oda di Udine, istituirono campi di soccorso e lavoro in nove comuni disastrati: Gemona, Tarcento, Buja, Magnano, Moggio, Nimis, Resia, Taipana e Venzone. Dopo le scosse di settembre aprirono un centro di assistenza a Lignano Sabbiadoro, per offrire il loro supporto agli sfollati. In quel momento si contavano circa 2 mila volontari di Comunione e liberazione impegnati in Friuli: numericamente era il terzo gruppo più numeroso dopo gli alpini dell’ANA e gli Scout. All’attività di soccorso seguì l’impegno nella ricostruzione, in particolare con le cooperative del consorzio CoRAF, e nell’organizzazione di iniziative per dare ai più giovani un segnale di speranza. Il 18 maggio don Antonio Villa, amico di don Giussani e canonico della chiesa milanese di San Babila, arrivò a Tarcento per stare con i volontari e organizzare l’attività ricreativa con la realizzazione di un istituto scolastico. Da allora don Villa non lasciò più Tarcento e il Friuli.
La mobilitazione dei volontari superò anche le barriere politiche. Il quotidiano L’Unità, nell’edizione dell’8 maggio, raccontò con quanto entusiasmo «molti i giovani della FGCI» si stavano dirigendo verso il Friuli assieme a una colonna di aiuti organizzata della Federazione torinese del Pci in partenza da Settimo Torinese. Alcuni dei ragazzi che invece Paolo Guzzanti, sulle pagine de «La Repubblica» del 9 maggio, descrisse come i «giovanissimi col fazzoletto rosso al collo», con vanghe e sacchi letto, aderenti al Centro democratico di coordinamento per il soccorso volontario, furono allontanati dal Friuli perché indesiderati. «Abbiamo cercato di riempire i vuoti e le lentezze degli aiuti ufficiali» spiegò l’allora esponente di Lotta continua, oggi noto giornalista friulano, Toni Capuozzo. L’afflusso di volontari era talmente elevato che, soprattutto nel caso di gruppi non organizzati, i sindaci furono costretti a imporre alcune regole di gestione. Il volontarismo può essere un problema, «si deve porre un freno all’arrivo caotico di personale non qualificato» osservò Zamberletti.